
5 cose che ci hanno detto le prime puntate di "The Last Dance" I due episodi incentrati su Jordan, Pippen e la figura di Jerry Krause
"Il miglior evento sportivo della pandemia" lo ha definito qualcuno, a metà tra la satira e la realtà dei fatti. The Last Dance, come da previsioni, ha generato numeri parziali da capogiro: 6.3 milioni di spettatori per il primo episodio e 5.8 milioni per il secondo tra i canali ESPN e ESPN 2, stando a quanto riportato dall'emittente televisiva stessa. Numeri comprensibili considerando l'hype creato in questi mesi di attesa e soprattutto la qualità del prodotto lanciato la scorsa domenica negli USA e lunedì mattina in Europa via Netflix.
Dopo appena il 20% della docuserie è difficile tirare le somme, né tantomeno è corretto sbilanciarsi su aspetti tecnici del racconto. Equivarrebbe a giudicare un libro dalla copertina e mai errore potrebbe essere più fatale. Nei primi due episodi, però, sono emerse cose già molto interessanti e si potrebbe dibattere per ore sullo stile della narrazione, sulla bellezza incredibile delle immagini inedite e su quanto i Chicago Bulls - e Michael Jordan sopra tutti - fossero delle icone culturali prima ancora di essere leggende sportive. Ma cosa è emerso di nuovo o di rilevante dai primi due atti della serie? La risposta in 5 punti.
FASHION COME UNA ROCK BAND
I Chicago Bulls, come detto, erano considerati "storia in movimento" grazie alla presenza di Michael Jordan e il paragone con una vera e propria rock band non è così avventato, né in termini di popolarità, né in termini di sicurezza e né tantomeno in termini di stile. L'esplosione di stile che si assiste nei primi due atti è da contestualizzare con i tempi - parliamo della fine degli anni '90 - ma si avvicina senza dubbi a qualcosa di incredibile. L'ego di MJ - che alza il volume della radio in più di un'occasione, basti vedere che la squadra arriva in divisa a Parigi mentre lui in tenuta Nike diversa dagli altri - è evidente fin da subito, dalla prima volta in cui compare il suo famigerato basco alla scena iniziale in cui dalla borsa escono due gioielli come le Nike Air Jordan 1 e le primissime Nike Air Ship.
QUESTIONE DI DETTAGLI
La serie ha colpito tutti per la qualità del montaggio finora visto, sulla scorrevolezza del racconto, ma ci sono alcuni dettagli che rappresentano il plus di questi due episodi. Dettagli che possono essere individuati sotto forma di espressioni: la frase che James Jordan utilizzava per stimolare il figlio Michael ("Se vuoi che Michael dia il meglio, digli che è un incapace") o la spiegazione di Mike su come la rabbia - e non la semplice ossessione, distinguo importante - gli abbia permesso di scuotere i suoi compagni senza Scottie in palestra o in campo. Dettagli che possono essere individuati sotto forma di episodi: la faccia del bambino che riceve l'autografo del suo idolo, il tentativo fallito di uno steward che si vede respingere neanche da Michael ma da una sua guardia del corpo, il ceffone che Oakley rifila a Pippen o lo sketch dell'abbraccio tra Harper e Burrell ripudiato con superiorità da MJ.
STORIE CHE SI INTRECCIANO
L'incrocio delle storie personali potrebbe essere il leitmotiv della serie, scendendo in profondità nelle vite dei singoli giocatori che resero immortali quei Chicago Bulls prima di affrontare l'ultimo ballo. Le immagini di Jordan a North Carolina non sono nuove e i racconti dei protagonisti - tra questi spicca coach Roy Williams - aggiungono solo piccoli dettagli ad una storia già conosciuta. Destino diverso per le immagini di Scottie Pippen, un ragazzo che ha messo al primo posto sempre la numerosa famiglia e poi tutto il resto. Senza dimenticare l'ascesa al potere di Jerry Krause, che parte dalla Major League per arrivare a ricoprire un ruolo di prim'ordine in una malandata NBA. Storie, insomma, che si ripercorrono e si ripercorreranno da qui alla fine, incrociandosi più e più volte, per dar vita a quello che tutti, ma proprio tutti, conoscono come The Last Dance.